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La vita sobria

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Questo racconto di Claudia Durastanti fa parte dell’antologia La vita sobria. Racconti ubriachi (Neo Edizioni), a cura di Graziano Dell’Anna. Racconti di Claudia Durastanti, Gianni Solla, Fabio Viola, Alessandro Turati, Francesco Pacifico, Olivia Corio, Dario Falconi, Paolo Zardi, Stefano Sgambati, Filippo Tuena. Ringraziamo il curatore e la casa editrice. E invitiamo a leggere gli altri racconti dell’antologia.

Jet Lag

di Claudia Durastanti

La prima volta che mi hanno messa su un aereo avevo quattro mesi; si dice che io non abbia pianto per tutto il viaggio. I miei genitori avevano deciso di vivere da una parte e l’altra dell’oceano, e mia madre aveva finalmente deciso di portarmi a Roma per presentarmi mio padre.

Mia madre mi racconta di questi pomeriggi con le serrande semiabbassate nel salotto dell’uomo che non aveva voluto sposarla; lui seduto su una poltrona di pelle marrone lucida ai bordi. La tappezzeria a cerchi gialli e arancioni che avrei imparato a conoscere come tipica di quei luoghi e di quegli anni, qualche pianta finta. Mia madre mi racconta di questi pomeriggi in cui mio padre le fumava in faccia senza offrirle una sigaretta, di quando si accampavano agli estremi opposti di una stanza, lei mi allattava e lui le diceva di togliersi la camicetta del tutto. Dopo una settimana di stallo, le ha pagato il biglietto di ritorno.

Non le ho mai chiesto se mi avesse presa in braccio in quei giorni: non sono quel tipo di persona. Durante il ritorno, le hostess e i vicini di posto non avevano fatto che complimentarsi per la mia disciplina. Mia madre aveva allungato il latte col bourbon, la mia riluttanza al pianto era chimicamente indotta. Ci scherziamo sopra ogni tanto, quando esco da una clinica. Non è che avessi molta scelta, dice mia madre: la mia infelicità è stata chimicamente indotta.

Quando avevo dieci anni, abbiamo subito il primo sfratto e ci siamo trasferite a casa di un amico che disinfestava piscine. Mia madre ci dormiva insieme ma non facevano sesso: lui era impotente, lei svogliata. L’estate lo accompagnavo a pulire i filtri delle vasche e sciogliere sacchetti di cloro in piscine appena battezzate. È stato durante una di quelle gite che ho incontrato quella che sarebbe diventata la mia migliore amica: era sdraiata sul fondo di una vasca a forma di fagiolo e suo padre la schizzava con un annaffiatoio minacciando di annegarla. Quando ci aveva visto, il padre aveva riposto la canna dell’acqua mimando un sorriso imbarazzato. Lei era uscita dalla piscina strizzandosi la maglietta e si era stretta addosso a lui. È così che si toccano padri e figlie, devo aver pensato.

L’amico di mia madre non mi sfiorava neanche per sbaglio. E poi, non era mio padre.

La mia migliore amica era snodata, e non ha mai avuto problemi a fare sesso in macchina.

Io mi sono sempre riempita di lividi. «È per via della tua pessima circolazione» mi diceva. «La tua pelle si ammacca in fretta». I medici dicono che non ci sono presupposti scientifici dietro la mia tendenza a illividirmi. «Non c’è una singola componente del tuo corpo che giustifichi queste macchie». E poi, non ho mai avuto una pessima circolazione.

Era solo il suo modo di ferirmi: tra le due, era lei quella snodata.

La mia migliore amica voleva mettere su una band, ma solo se poteva essere lei la cantante. Dopo una conversazione molto franca e molto nervosa sul suo letto, ha acconsentito a mettersi alla batteria. Io ho iniziato a scrivere dei testi e a mimare la fama davanti allo specchio.

A ventidue anni sono finita nella Top 100 di Billboard. A trent’anni, ero tra i primi della lista.

La mia migliore amica è morta di cancro al fegato. L’avevo vista grigia per tre mesi, finché grigia non è stata più.

Il giorno del mio quarantesimo compleanno partiamo alla volta di una città scimmiesca e millenaria del subcontinente indiano, il volo è turbolento. Dopo avermi artigliato il polso la ragazza nuova del reparto comunicazioni mi chiede come faccio a essere imperturbabile. Le spiego la storia di quando avevo quattro mesi, lei annuisce con aria grave. «Certe persone imparano a volare presto» conclude.

È una frase da ufficio stampa; il motivo per cui l’hanno assunta.

L’albergo in cui ci hanno sistemato è fatto solo di tende. Dopo cena, gli altri mi raggiungono in camera per una partita a carte. La guardia del corpo ride, poggia le carte sul tavolo e mima il gesto di tagliarsi la gola. Il fonico ride, la parrucchiera ride, il tecnico delle luci ride. Io rido. Ho perso trecento dollari ieri, stasera ne ho persi altri cento. Ogni volta che vado in tour la curva del mio conto in banca inizia a flettere verso il basso. Al telefono il commercialista dice: «Pensavo che eliminato il problema i tuoi conti avrebbero iniziato a prosperare».

Ma non è proprio da me, sostituire un fallimento con un altro? «Scrivici un pezzo» dice il commercialista. «Scrivici un pezzo», per tante persone che mi sono vicine, e per tanto tempo, è stata una risposta a tutto.

A sedici anni sono andata a Roma a trovare mio padre. È venuto a prendermi all’aeroporto con un cartello, io mi sono sporta in avanti per abbracciarlo, credevo di doverglielo, e lui invece ha teso la mano. Mi ha portato nell’appartamento che avevo visto in foto, la tappezzeria era uguale, e mi ha presentato alle sue amiche. Non ne ha mai sposata nessuna.

Una sera si è macchiato la camicia di vino e mi ha chiesto se gliela lavavo. Io l’ho sciacquata nel lavandino con del sapone per i piatti verde radioattivo e lui ha riso. Mi ha detto che mia madre non mi aveva insegnato le “cose”. Credo di aver ereditato da lui questa magnifica capacità di astrazione: il nostro vocabolario è barbaro e contratto e il mondo è solo un posto fatto di “cose”: cose d’amore, cose di soldi, cose di salute, cose di spirito.

Provate a leggere le mie interviste: non so cosa siano i sinonimi.

Sono tornata a Roma altre due volte, lui è venuto a sentirmi, e il giorno dopo mi ha pagato la colazione. Mi ha chiesto cosa pensassi della città; io gli ho detto che la trovavo violenta e che aveva piovuto tutte le volte che ci ero stata. «È un posto pieno di morti ammazzati» ho aggiunto. È vero: è l’unica città in cui abbia assistito ad accoltellamenti a cielo aperto, davanti alle stazioni. Non mi piace calpestare una pozza di fluidi in cui riversa uno sconosciuto; non ho alcun diritto al suo sangue.

Mi sono innamorata di un uomo che non beveva, una volta. Camminava perpetuamente in linea retta, e davanti a lui la mia dipendenza si era contratta per vergogna. Credeva che guidare quaranta ore a settimana facesse di lui una persona spirituale, e che l’ecoterrorismo non fosse penalmente perseguibile. Aveva militato in una band punk hardcore da ragazzo; gli erano rimasti dei tatuaggi gravidi di rose. Per un po’, grazie a lui,  ho avuto la pelle liscia e lo stomaco piatto, un carattere migliore. Non sono una di quelle donne che perdono carisma quando sono sobrie; l’alcol non mi ha mai restituito niente che non avessi già. Almeno questo era quello che mi diceva. Suonava romantico, questo glielo riconosco.

L’ho lasciato il giorno in cui mi ha chiesto di farci delle foto per salvare le foche; ci parliamo ancora di tanto in tanto.

Quando sono in albergo e non dormo, faccio zapping tra i canali erotici a pagamento ma raramente do il consenso per l’acquisto: mi piacciono i titoli. Chiamo la mia guardia del corpo e glieli recito, lui mi chiede se voglio andare in uno strip-club. Ordino una Coca Cola al bancone, la ragazza mi guarda come se fossi ottusa. Aspetta che io tiri fuori un portapillole dalla borsa, io mi limito a tirare su con il naso per non farla stare in pensiero. La mia guardia del corpo mi presta cento dollari in biglietti da venti, io li finisco dopo mezz’ora. Mi spiega la differenza tra una tetta finta e una tetta vera, lo ascolto per educazione. La consistenza del silicone lo commuove, così iniziamo a parlare di materassi ad acqua, gatte che mangiano la placenta dopo aver partorito e piani per la pensione (il suo è più corazzato del mio). Quando ci salutiamo nell’atrio mi dice che «Gangbangs of New York» era il migliore.

A metà tour, quando siamo in Giappone, veniamo raggiunti da un cantante più giovane da svezzare; la casa discografica ha messo una clausola al riguardo nel mio contratto. Entra in scena per un paio di pezzi; non trovo che la sua presenza giovi particolarmente allo spettacolo ma sono a quel punto della mia carriera in cui non capisco chi sta facendo un favore a chi.

Una volta, dopo una partita a carte in camera mia in cui lo derubiamo di tutti i contanti, mi chiede di restare. La mattina dopo mi accorgo di avergli fatto un graffio sulla guancia, glielo pulisco con un Kleenex che ho cura di buttare nel cestino (nessuno ha diritto a questo sangue). Il ragazzo mi fa domande sulle sue prestazioni mentre sono sotto la doccia – per lui graffio non è sinonimo di orgasmo – a cui rispondo con entusiasmo. Nelle settimane successive mi dice «voglio scoparti fino a consumarti le ossa» e «vorrei non averti mai incontrata per avere il piacere di violentarti» e io dico che è ora di prendere la strada del ritorno.

L’Asia che ci lasciamo alle spalle è meno al neon di quando l’ho vista la prima volta.

Prima, ogni volta che prendevo un aereo, c’erano determinati tipi di signori a ricevermi all’atterraggio. Uomini felici, senza calli, che dispensavano strette di mano leggere e gentili, non alzavano la voce. Sorridevano. Annuivano, poi sparivano. Le macchine che possedevano non erano mai troppo vistose o volgari, tutti quelli che conoscevo avevano un gusto eccellente. Per loro non ero una cliente, solo una a cui veniva fatta della beneficenza. Se mi comportavo bene potevo sorbirmi un quarto d’ora di memoriali e moniti da padreterno.

Quei poveretti credevano che il dialogo innalzasse il livello complessivo del servizio.

Io volevo solo sapere come miscelare “cosa” con “cosa”.

La mia guardia del corpo è infatuata della parrucchiera, che a sua volta è infatuata del fonico. Sono persone che porto in viaggio con me da quindici anni. Conosco i nomi di battesimo dei loro figli, di che malattia sono morte le loro madri, conosco la virulenza dei loro attacchi gastrointestinali. Da quando la mia migliore amica è morta, non ho più avuto migliori amiche, e la parrucchiera è quel che mi resta. «Hai un odore migliore» mi dice ultimamente. Quel che vuole dire è: «Non importa se sei ingrassata». Da quando ho intrapreso un percorso terapeutico sono molliccia e bianchiccia, posso scopare solo a luci spente.

Ne parliamo spesso alle riunioni: di questo grasso che ci fa orrore.

Un altro uomo che ho amato invece beveva molto, con dedizione metodica. Ci siamo trasferiti in una casetta nei boschi per sei mesi, il ragazzo delle consegne passava una volta a settimana a consegnarci casse di liquori barricati. Non stavamo vivendo la buona vita, checché ne pensassero i fotografi. Recentemente ha scritto un romanzo in cui morivo, mi ha chiesto se volevo correggere qualche dettaglio. Gli ho detto che rispetto a quei personaggi eravamo meno molesti e che non ci eravamo mai denudati in pubblico declamando la nostra miseria in versi. Però avevo l’abitudine di infilargli due dita in bocca per farmele succhiare, e quando le tiravo fuori era come se fossi stata a mollo nella vasca per mezz’ora. Poteva andare?

Il libro non ha venduto quanto si aspettava. L’ho portato a cena per consolarlo, ha cercato di appiccicarmi al parabrezza. Gli ho detto «Sono pulita» e lui mi ha chiesto chi aveva mai pensato il contrario.

Da quando è finito il tour l’interno delle mie braccia si sta gradualmente coprendo di efflorescenze color carminio. Sembra una malattia da scimmie, oppure mi sto trasformando in una spugna. La casa discografica mi dà l’indirizzo di un ambulatorio privato e il giorno prescelto il medico mi tasta le costole, mentre sento la mia voce dalla radio sulla scrivania della segretaria. Lui sorride, poi mi pizzica la pelle per vedere quanto ci mette a diventare rossa. Mi chiede se sono sensibile, per qualche secondo non capisco la domanda.  Dopo una settimana mi chiede di tornare, questa volta sono di spalle e lui e i suoi colleghi formano una fila ordinata dietro di me. Mi toccano le vertebre con dita ricoperte di lattice, sussurrano tra loro, e per un attimo temo di essere diventata una santa. Ne esco con un verdetto di malattia autoimmune. Quando vado a pranzo a casa di mia madre per raccontarglielo lei scuote la testa; dice che autoimmune è sinonimo di tutto quello che i medici non capiscono.

Una ragazzina viene alle riunioni nel centro dietro il mio appartamento anche se vive a due ore da qui. Lo fa perché ci sono io. «Come lo hai scoperto?» le chiedo. Mi informa di un sito internet specializzato nelle dipendenze di personaggi famosi, con tanto di mappe e avvistamenti. C’è un elenco dettagliato di centri AA ed NA in cui possono stanarci. L’ingresso è gratuito, la miseria democratica, non posso rimproverare la ragazzina perché crede che abbiamo un problema in comune. Abbiamo un problema in comune. Le chiedo il significato dei suoi tatuaggi. «Sono versi delle tue canzoni» dice. Non ho mai avuto la grazia di arrossire. Non c’è una singola componente del nostro corpo che giustifichi queste macchie.

L’uomo che ho amato più di tutti non prendeva mai aerei per viaggiare, così per vederlo dovevo noleggiare macchine, pagare autisti, prenotare autobus e treni. Lui si trasferiva in abitazioni sempre più remote; io avanzavo con i fari accesi e lui retrocedeva finché non diventava solo una sagoma di cartone, di quelle su cui ti eserciti a sparare. Ogni volta che gli telefonavo mi sembrava di entrare in un poligono; se restava in silenzio capivo di aver mancato il bersaglio.

Mi aveva intervistato per l’uscita del mio disco più brutto, una circostanza che ancora oggi mi riempie di vergogna. Era arrivato per ultimo, e mi aveva rivolto domande paternaliste che non richiedevano commenti. Era molto più grande di me, e lo è stato per tutto il tempo che abbiamo trascorso insieme. Ha abitato nel deserto, nella valle e persino su una piattaforma, ma non ha mai avuto case con piscina. Mi faceva sempre delle manovre di Heimlich per scherzo; gli piaceva dire che mi aveva salvata.

L’ultima volta che sono stata a cena con il mio fratellastro prima che lo ricoverassero per gli ultimi fuochi del suo sarcoma ho fatto caso alle sue dita che scrollavano cenere in un bicchiere pieno di birra; erano tappezzate di croste lattiginose. Mi ha spiegato che all’inizio se le grattava sempre ma il sangue non smetteva di fluire; non era come i tagli che ci facevamo da ragazzi quando cadevamo dai muretti o dagli alberi.

La mia migliore amica era brava a scalare superfici verticali e in ragione delle sue membra allungate era particolarmente aggraziata quando penzolava a testa in giù dai rami. Una volta lo abbiamo fatto anche se non avevamo il reggiseno e il suo ragazzo ci ha scattato una Polaroid che conservo tuttora nel portafoglio, anche se abbiamo le teste mozzate.

La tiravo sempre fuori quando ero sbronza; non rendo giustizia alle nostre tette da tempo immemorabile.

Quando accompagno i bambini della parrucchiera alle giostre, e giriamo in tondo in quella specie di ciambella con un timone in mezzo, loro gridano «basta» ridacchiando ma so che in realtà mi stanno chiedendo di andare più veloce, e io mi fermo giusto in tempo prima che ci venga il mal di stomaco. Qualche volta, non sempre, penso che quel che voleva la mia migliore amica dalla band era solo girare in tondo, un po’ più in fretta, con il cielo che le collassava negli occhi e la possibilità di ordinare a qualcuno di fermare la giostra in tempo.

«Tu non hai bisogno di copiloti». Questo era il succo della sua telefonata in cui mi ha detto che avrebbe mollato. Aveva ragione.

Io e l’uomo che ho amato più di tutti ci incontriamo al funerale del mio fratellastro. C’era stato dell’affetto tra loro, e io ho apprezzato la sua presenza. Dopo la cerimonia ricordiamo le sue braccia con i peli quasi ingrigiti, i capelli chiari e disidratati riassunti in strane ciocche sulla fronte e gli occhi pieni di nervetti rossi, sedati da una stanchezza senza origini. Riusciamo a ricordarlo così bene perché negli ultimi anni della sua vita il mio fratellastro ha partecipato a un progetto fotografico su persone candidate a morire.

Informata dell’infelice occorrenza, l’addetta stampa ha detto: «Nessuno schiatta più per questa malattia» e anche se è il genere di frase per cui l’hanno assunta, ho dovuto rimproverarla lo stesso. Il mio fratellastro è entrato nella mia vita senza un inizio, senza una storia. È nato insieme alla sua dipendenza e non mi ha mai raccontato com’era prima. Portava dei lividi, so che lo picchiavano e presumo che gli piacesse, che in qualche ora della sua adolescenza si fosse convinto che il suo orientamento non era adeguato e le macchie scure fossero una pena commisurata alla colpa. Ho deciso di non scriverci una canzone sopra anche se è quello che tutti si aspettano. Quando l’ho spiegato all’uomo che ho amato più di tutti lui mi ha abbracciata con rispetto.

Io e il cantante più giovane siamo diventati amici da quando ha smesso di necro-corteggiarmi. Guardiamo del porno insieme, lui fa le sue cose e io faccio le mie.  Una sera, durante la tappa europea del tour alla fine dell’estate, lui e la guardia del corpo mi buttano in una fontana e io so che le mie cosce fanno più schizzi di quando ero ragazza, ma non mi importa. Mio padre mi chiama sul cellulare di produzione, è l’unico numero a cui può avere accesso. Ha visto le mie foto nella fontana, dice che sono diventata una donna decente. Le uniche che riusciva a ricordare erano quelle in cui avevo conche viola ai lati del naso. Mia madre, dopo quel soggiorno a Roma, ha deciso di non prendere più aerei: posso portarla in vacanza solo su rotaie, lo facciamo almeno una volta all’anno. Ci divertiamo, la maggior parte delle volte.

La prima volta che sono stata in volo avevo quattro mesi e non ho pianto: la mia tranquillità era stata chimicamente indotta. La mia migliore amica non si è mai ammaccata ed è scomparsa lo stesso. Se avessi chiesto a mia madre se papà mi aveva tenuta in braccio, in quei giorni, lei avrebbe riso. Come me, non è mai stata quel tipo di persona.

Non bevo da un anno e cinque mesi, fatto salvo per una serata di cui non ho voluto parlare in riunione. Ho collezionato una decina di medagliette di sobrietà, le ho regalate al mio staff e ai figli della parrucchiera che ci hanno abbigliato il cane o li usano come portachiavi.

Non c’è una singola componente del mio corpo che giustifichi questa infelicità.


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